La catastrofica demografia di una civiltà al lumicino

Un quarto degli Europei è povero o si avvia ad esserlo (però va tutto bene, intendiamoci!)

L’ufficio statistico dell’Unione Europea  certifica che c’erano 79 milioni di poveri in Europa nel 2007 e che nel 2010 erano già 116 milioni (23% della popolazione totale). Dato che nel 2011 l’economia dell’eurozona è tornata in recessione, è ragionevole supporre che al prossimo conteggio il valore oscillerà tra i 120 milioni ed i 150 milioni, su una popolazione totale di poco più di 500 milioni. Cioè a dire, almeno un quarto della popolazione europea è in miseria o si sta avviando alla miseria.  

Nel 2010, di quei 116 milioni di poveri, ben più di un quarto erano bambini (sono il 40% in Brasile). Il numero di persone anziane che vivono in condizioni di povertà era di circa il 20 per cento.

Se dobbiamo credere ai dati d’oltreoceano, questo significherebbe che l’Unione Europea, incredibilmente, è ormai messa peggio degli Stati Uniti!

Qualcuno vuole fare qualcosa per fermare i criminali che ci stanno facendo questo?

L’obbligo di morire in una società che invecchia – un altro delirio della torre d’avorio

di Stefano Fait

La frase “non mi sento ancora pronto per morire” non esenta una persona anziana dal dovere di farlo. Raggiungere l’età di 80 anni senza sentirsi pronti a morire è già di per sé un fallimento morale, l’indicazione di un’esistenza dissociata dalla realtà fondamentale della vita. Il dovere di morire può sembrare severo, e talora lo è, ma se davvero ci tengo alla mia famiglia, il dovere di proteggerla sarà spesso accompagnato da un profondo desiderio di farlo. Normalmente uno vuole proteggere le persone che ama: non è solo un dovere, è anche un desiderio. Di fatto, posso facilmente immaginare di volere risparmiare alle persone che amo il peso della mia esistenza più di quanto possa volere altre cose.

John Hardwig, “Dying at the Right Time: Reflections on Assisted and Unassisted Suicide”, 1996

La tesi che esiste un dovere di morire potrà sembrare ad alcuni come una risposta sbagliata alle negligenze della società. Se la nostra società si prendesse cura di disabili, malati cronici ed anziani come sarebbe suo compito fare, ci sarebbero solo rari casi in cui far valere quest’obbligo. Alla luce delle contingenze presenti, sto domandando ai malati e disabili di fare un passo avanti ed accettare una responsabilità che la società non intende assumersene un’altra. […]. Non devo, perciò, vivere la mia vita e pianificarla partendo dal presupposto che le istituzioni sociali proteggeranno la mia famiglia dalla mia infermità ed invalidità. Sarebbe da irresponsabili. Più plausibilmente, spetterà a me proteggere le persone che amo.

John Hardwig, “Is there a duty to die?”, Hastings Center Report 27, no. 2 (1997), p. 34-42

Queste persone animate dalle migliori intenzioni [come Hardwig], ahimé, non vivono nel mondo reale…Il loro mondo ideale non contiene figli e figlie o generi e nuore che non dimostrano amore e rispetto verso i loro genitori e suoceri…dove gli eredi non sono oberati da debiti che sarebbero saldati così facilmente se solo il nonno si desse una mossa a morire. Il loro mondo ideale contiene dottoresse ed infermieri che non necessitano di alcun tabù perché sono naturalmente più virtuosi, nobili ed intelligenti delle altre persone…medici ed infermiere che non trattano mai i loro pazienti sprezzantemente e non si stufano mai di avere a che fare con vecchi sporchi e molesti…che non falsificherebbero mai le cause della morte e non violerebbero mai la legge. [in questo mondo ideale] persino i dottori che hanno già violato le norme vigenti contro l’eutanasia non violerebbero o interpreterebbero arbitrariamente nuove leggi in materia.

Jenny Teichman, “Social ethics”, pp. 84-85

Il caso di Eluana dimostra ancora una volta che le persone restie ai condizionamenti vengono mal tollerate; reclamando il diritto alle loro libertà fondamentali sovvertono l’ordine prestabilito e questo infastidisce e spaventa.

Beppino Englaro – una riflessione applicabile anche al dibattito sul dovere di morire

John Hardwig, Dan Callahan, John Beloff, Margaret Pabst Battin, Judith Lee Kissell, Marilyn Bennett, Julian Savulescu, John Harris si sono tutti espressi in favore del dovere di morire. Lo ha fatto anche Richard Lamm, governatore del Colorado negli anni Ottanta.

John Harris (“Immortal Ethics”, Annals of New York Academy of Sciences, 1019, pp. 527-534, 2004), immagina un futuro in cui si porranno in essere pulizie generazionali (sul modello della pulizia etnica) decidendo collettivamente quanto a lungo è ragionevole che una persona possa vivere e garantendo che il numero più ampio possibile di persone possa farlo in buona salute fino a quell’età limite, per poi “invitarle” a suicidarsi – ingenerando nell’opinione pubblica un certo tipo di aspettative, nonché imbarazzo, disagio e vergogna in un ottuagenario che non voglia morire. In alternativa, suggerisce Harris, ci si potrebbe astenere dal somministrare certe cure o servizi di assistenza, oppure si potrebbe riprogrammare il genoma in modo tale da riattivare i geni dell’invecchiamento per dar spazio alle nuove generazioni, in uno scenario perfettamente descritto in un recente film che consiglio a tutti di vedere:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/01/in-time-occupy-hollywood-e-la-lotta-di-classe-del-terzo-millennio/

Nietzsche approverebbe, visto che definiva i malati [e lui stesso era malato] dei parassiti della società la continua esistenza dei quali, in certe condizioni, è indecente.

Dovremmo domandarci qual è la linea che separa il diritto di scegliere il suicidio e il dovere di scegliere di liberare gli altri della nostra presenza.

Il sacrosanto diritto di morire con dignità e quindi l’altrettanto sacrosanto diritto al suicidio assistito, non deve convertirsi gradualmente dapprima nel dovere di morire con dignità, poi nel diritto della società di insistere che le persone muoiano dignitosamente ed infine nell’eutanasia involontaria. Purtroppo però, come testimoniano i filosofi sopracitati, quando la qualità della  ed il suo costo sociale diventano i criteri principali per valutare se una vita sia degna di essere vissuta, improvvisamente uno si trova a dover meritarsi di poter vivere. Ingranaggi della megamacchina, abbiamo valore solo se siamo efficienti:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/18/la-soluzione-finale-alla-questione-dei-disabili-secondo-il-governo-inglese-cazzi-loro/

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/03/19/questa-e-blasfemia-questa-e-pazzia-questa-e-oxford-quando-linfanticidio-diventa-un-diritto-inalienabile/

Non è implausibile immaginare che un giorno saranno inaugurati dei corsi di gestione mortuaria.

Dovremmo tener conto del fatto che quello del vecchio eschimese che si fa trasportare via dal ghiaccio verso la morte è un mito occidentale non confermato dai dati etnografici e, se anche fosse vero, noi non viviamo sulla banchisa polare, come forse molti hanno intuito.

Come può essere saggio generare delle pressioni morali o persino normative che spingano gli individui a porre termine alla propria vita (e che avranno effetti devastanti su chi ha già fantasie suicide)? È un genere di società in cui è desiderabile vivere quello che persuade persone di qualunque età che si trovano nella condizione di costituire un “fardello” per la famiglia e per la collettività che è giusto sentirsi in dovere di togliersi di mezzo con un suicidio o un suicidio assistito?

Che messaggio stiamo mandando alle persone che sono già molto anziane, molto malate e gravemente disabili? Si rendono conto, questi “filosofi morali”, che prima o poi anche loro rientreranno in una queste categorie? Non è abbastanza evidente che questo discorso indurrebbe moltissime persone che già si sentono in colpa a sentirsi di troppo sebbene non lo siano, e questo proprio quando il progresso tecnologico consente loro di condurre vite meno dipendenti dagli altri e più attive di quel che sarebbe stato lecito attendersi in passato?

Anni di assistenza a persone non-autonome mi hanno insegnato che prendersi cura del prossimo non è solo un peso, può anche essere un piacere ed una lezione di vita impareggiabile. Lo stress, l’ansia e anche il fastidio di certi momenti è più che compensato da un rapporto umano fatto di dialogo, di esplorazione dell’interiorità di entrambi e di affetto, se non amore.

Che reazione avrei se dovessi scoprire che una persona di cui dovevo prendermi cura ha scelto di togliersi la vita per non importunarmi con la sua presenza? Come potrei sentirmi sicuro che non malinterpreterà certe mie parole o gesti, decidendo che i sacrifici di cui mi faccio carico sono eccessivi? E che cosa succederebbe se il tentativo di suicidio di questa persona fallisse, aggravando ulteriormente la sua condizione: dovrei completare l’opera io?

Com’è possibile che questi pensatori non siano capaci di pensare alle ramificazioni più essenziali dei loro ragionamenti? Si sentono razionali perché sanno ipersemplificare l’esperienza umana? Non sono forse pagati per esercitarsi nel pensiero profondo, insegnando ai loro studenti a fare lo stesso? Oppure gli unici ragionamenti validi, per loro, sono quelli che gratificano il loro ego, le loro predilezioni, e che non si insozzano nelle contraddizioni, incertezze e complicazioni della realtà vissuta?

A me pare che l’inevitabile deriva morale di una società che accetta il dovere di morire la porterà a declinarlo nel senso del dovere di uccidere. Se io ho il dovere di morire e non lo faccio, non c’è ragione di impedire a qualcun altro di togliermi la vita al posto mio, assolvendo un compito assegnatogli implicitamente dalla società. Qualcuno potrebbe andare in giro a uccidere vecchi, malati e disabili proclamandosi un giustiziere, un raddrizzatore di torti, un’esecutore della volontà generale.

La somma ipocrisia di questa società è che si possano immaginare certe situazioni future solo in virtù del fatto che gli elettori continuano a votare stolidamente a fidarsi dei media e a votare per politici che approvano esenzioni fiscali per i ricchi o sussidi per le grandi industrie e banche e continuano a spendere per gli armamenti di destra o “sinistra” che siano.

DIRITTO ALLA VITA, DIRITTO ALL’ABORTO E DIRITTO AL SUICIDIO

Il diritto alla vita comprende, naturalmente, anche il diritto al suicidio. Non si può pensare che il suicidio sia un reato se si stabilisce che la mia vita è mia e di nessun altro, tanto meno proprietà dello stato, della società o di un dio/dèi. Se la mia vita è mia – e solo un fanatico mitomane indegno della mia attenzione potrebbe pensare che non lo sia – la posso anche concludere prematuramente e la società non ha il diritto di tenermi in vita contro la mia volontà. Il diritto all’aborto è collegato al diritto al suicidio nel senso che la donna non può essere considerata come un mero strumento biologico di perpetuazione della Vita. Entrambi questi diritti scaturiscono da e tutelano il senso che la mia vita non è una proprietà e non può essere adoperata da altri, né tantomeno sprecata da altri.

Se non capiamo questo semplice concetto rischiamo, un giorno, di risvegliarci in una società in cui lo stato si è fatto paladino della qualità della vita e ha promulgato norme che sanciscono l’obbligo di provvedere tutti i cittadini del servizio di una morte rapida e confortevole tramite la sospensione di trattamenti medici somministrati a pazienti la cui “qualità della vita” è anche solo marginalmente compromessa.

IL RISPETTO DELLA VITA UMANA E DELLA SUA DIGNITÀ

Una persona che non è più consapevole o normodotata non è meno umana degli altri, tanto quanto un maschio non è meno mammifero solo perché non ha le mammelle. L’unico significativo discrimine tra esseri umani è la morte. Prima si è interamente umani, poi lo si è meno; ma ancora permane, giustamente, un particolare rispetto per la salma che, di norma, non è trattata come un semplice ammasso di materia organica. Per come la vedo io, se perdessimo il rispetto per la dignità dei vivi e dei morti non saremmo più degni di continuare ad esistere e sarebbe meglio che una pestilenza ci spazzasse via tutti al più presto.

 

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