Daniza e il mondo di Jonas

Antropocentrismo animalista

Antropocentrismo animalista

In una società futuristica in cui l’umanità ha scelto di annullare tutte le differenze tra le persone al fine di evitare conflitti dilanianti, la vita scorre tranquilla e asettica. L’ordine regna sovrano e l’unico legame con un passato “contaminato” dalle passioni è la “Cerimonia dei 12”, durante la quale un individuo viene scelto come Custode delle Memorie dell’Umanità. Quando il compito toccherà all’adolescente Jonas, la conoscenza di ciò che è stato lo porterà a voler scardinare per sempre l’ordine precostituito. Il Premio Oscar Meryl Streep e il Premio Oscar Jeff Bridges ci trasportano in un mondo che non vorremo mai visitare…

The Giver – il mondo di Jonas

Con Daniza è successa una cosa che non era capitata con Bruno o con la povera orsa annegata a Molveno, credo per il semplice motivo che sono passati pochi anni, ma anche per le circostanze davvero eccezionali della vicenda. Con Daniza l’orso è tornato a pieno titolo animale totemico incarnando la nostalgia di sacro di una folta tribù pagana dei nostri tempi. L’animale temuto e venerato, ucciso e (proprio per questo) divinizzato, capro espiatorio collocato sul suo totem al di sopra degli umani e degli altri animali e assurto a simbolo di maternità universale non è più un orso come tanti inserito in un normale benché complesso rapporto ecologico. E’ vittima sacrale dopo essere stato simbolo di violenza e di potenza e di fertilità. Gli innumerevoli animali domestici da lui sbranati non contano, sono vittime dovute al totem; l’innocente (un tempo) passeggiata nel bosco alla ricerca di funghi diventa superamento del confine del sacro, dove il totem regna con i suoi cuccioli; l’uccisione per mano di un potere costituito chiama in correità un intero popolo (i “trentini”), secondo schemi ahinoi ben noti, che per fortuna, ripetendosi in farsa, prevedono l’espiazione attraverso una pioggia di disdette di settimane bianche. E così via…Non giudico, constato. E confesso a mia volta un sottile, irrazionale turbamento per l’accaduto.
Marcello Bonazza

Se è vero che i cuccioli hanno buone possibilità di cavarsela, è vero anche che corrono il rischio, grosso, di diventare dei futuri orsi problematici. Sull’esempio di quanto insegnato loro dalla madre potrebbero avvicinarsi all’uomo e agli animali domestici in cerca di cibo facile; in particolare dalla prossima primavera quando, diventati più grandi e forti, potrebbero sentirsi attratti da rifiuti, pollai, pecore. Quale sarebbe, da parte nostra, l’errore più grande a questo punto? Ritenere che abbiano bisogno di aiuto, e sentirsi tentati di lasciare del cibo “ai poveri orfani indifesi”.
Fare questo sarebbe stupido e criminale, significherebbe spianare la strada al futuro triste che attende gli orsi confidenti e/o troppo dannosi: catture o abbattimenti gestionali, atti di bracconaggio. Quindi il nostro appello è questo: NON LASCIARE CIBO AI CUCCIOLI; segnalare la loro presenza a chi di dovere, senza pubblicizzarla con foto ai media o sui social network, che richiamerebbero curiosi; stigmatizzare e denunciare comportamenti scorretti da parte di altri nei loro confronti. EVITARE DI TENTARE DI AVVICINARSI O ATTIRARLI e, qualora nelle prossime settimane si avvicinassero a masi, centri abitati, persone, SPAVENTARLI.
Solo insegnando loro che avvicinare l’uomo è pericoloso, possiamo aiutarli a diventare grandi; solo così possiamo tentare di evitare loro di seguire le orme della madre. Vogliamo dare una possibilità ai cuccioli di Daniza?

Convivere con l’orso sulle Alpi (Facebook)

 

Non mi piace questa disputa intorno alla morte di Daniza.

Sta mettendo a nudo la tendenza umana a fantasticare oltre ogni misura che sarebbe ragionevole:

– immaginare realtà diverse e migliori di quella presente è fondamentale (cf. Adam Ewing “Ma cosa è l’oceano, se non una moltitudine di gocce?” – Cloud Atlas);

– perdere di vista la realtà così com’è – e non come vorremmo che fosse – è invece deleterio e genera la violenza di chi odia il presente perchè non è più com’era e di chi lo odia perché non è ancora come dovrà essere.

Aggredito da orso: Galletti, non sto con Daniza nè contro

Fin dall’inizio il progetto di rewilding del Trentino è stato impestato da un processo di estetizzazione che ha interessato entrambe le parti: l’estetizzazione della scienza di Life Ursus, l’estetizzazione dell’orso, l’estetizzazione dei valligiani, l’estetizzazione del Trentino e della sua natura “selvaggia”, l’estetizzazione di una natura che è chiamata ad essere selvaggia per soddisfare i nostri bisogni psicologici, ma nel contempo deve stare alle nostre regole…un mucchio di miti e di scariche emotive, di granitiche certezze, di scarsa disponibilità all’ascolto, alla riflessione, all’analisi dei fatti, anche quelli che non ci piacciono…

Ora occorre trovare un giusto compromesso, un equilibrio tra selvatico e domestico, tra grandi predatori e persone, tra città e mondo rurale, senza snaturare, addomesticare ed estetizzare l’orso (lupo), chi vive in montagna e l’umanità nel suo complesso.

Dobbiamo ascoltarci, capire le ragioni altrui, accettare che ci può essere del vero da una parte e dall’altra, oltre a grossi fardelli passionali che tirano fuori il meglio e il peggio di noi, a seconda che ci assistano, oppure ci dominino.

daniza

Questo, secondo me, vale anche per gli esperti, che oggi si trovano sotto accusa (e non poteva essere diversamente, perché fin dall’inizio hanno preferito non rispondere alla domanda più scomoda: e se la natura non collabora?).

La questione della reintroduzione dei grandi predatori non passa solo per l’educazione del “volgo”. Non è che tutto si sarebbe già risolto se la gente fosse stata informata adeguatamente. Questo è un pregiudizio positivista che non ha più ragion d’essere: la conoscenza non scende solo dall’alto, può anche salire dal basso. Anche gli esperti possono e debbono imparare dal patrimonio di conoscenze acquisite e tramandate nei secoli da una comunità su cui intervengono.

Parliamoci, ascoltiamoci, capiamoci e risolviamo assieme i nostri problemi.

Oppure un giorno arriverà qualcuno che ci spiegherà che, per il nostro bene, sarebbe opportuno castrare la nostra irruenza e la nostra immaginazione (cf. Equilibrium).

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La storia dell’orso, dell’uomo e di come finirono entrambi ingabbiati

Margherita D’Amico, “Trento, nel santuario torna l’orso rivolta contro la gabbia dei frati”, La Repubblica, 26 agosto 2012

Questione di giorni e la “buca” di San Romedio, la gola angusta e recintata, vuota dal 2008, che s’infossa sotto il famoso santuario della Val di Non, accoglierà un nuovo orso. 1500 metri quadrati umidi, privi di alberi; una solitudine su cui, nel lungo inverno trentino, non batte mai il sole: «Si ripropone un messaggio lugubre, diseducativo, arcaico: ci stupisce sia da parte delle istituzioni religiose che dalle amministrazioni locali», protesta Marcello Dell’ Eva, presidente del Movimento vegetariano No alla caccia, che guidando una formidabile battaglia popolare riuscì nel 2010 a ottenere il trasferimento di Jurka, l’ ultima prigioniera, in un’ oasi tedesca. Padre Fabio Scarfato, priore del santuario e della Diocesi di Trento, dice: «La Diocesi, proprietaria del santuario, mette a disposizione l’area in comodato alla comunità di valle. Ma San Romedio non ha affatto bisogno dell’animale in carne e ossa: è una tradizione molto recente e per quanto ci riguarda ne faremmo a meno». Più chiara la posizione dei sindaci dei comuni interessati: «L’orso è un richiamo turistico, la gente qui lo vuole, abbiamo ricevuto molte mail», asserisce Paolo Forno, sindaco ad interim di Coredo. Lo spunto che lega l’orso alla figura di Romedio di Thaur, eremita vissuto nel IV secolo, si rifà a un episodio leggendario. Si dice che il santo dovesse recarsi a Trento e un servitore gli riferì spaventato che un plantigrade gli stava sbranando il cavallo. Romedio non si preoccupò e fece mettere la briglia all’ orso, il quale docilmente si lasciò cavalcare. Ma nessun suo simile fu mai imprigionato, fino ai giorni nostri: nel 1958 Gian Giacomo Gallarati Scotti, senatore del Regno d’ Italia e ambientalista, riscattò da un circo Charlie. Per lui fu approntata una gabbia minima, di lì intrattenne i visitatori. L’ area fu migliorata un po’ solo in seguito, con la presenza di altri plantigradi. Marcello Bonadiman, sindaco di Sanzeno, dice: «La minoranza chiassosa degli animalisti stavolta ha avuto la peggio: l’orso tornerà. Ci costa 11mila euro l’anno di cibo, più il custode. Si chiama Bruno, viene dal Parco d’ Abruzzo». Se quest’ orso sia nato in cattività, da quale struttura provenga, sono domande a cui i sindaci trentini non rispondono, come pure Sergio Menapace, presidente della Comunità della Val di Non: «L’iter burocratico è definito, di altre informazioni non dispongo». Una chiusura che sembra tradire qualche timore. Nella valle c’è chi non dimentica infatti le fiaccolate notturne, le manifestazioni per Jurka, che arrampicata in cima all’ unica pertica di San Romedio divenne un simbolo. Entrò nel 2006, per lei fu sloggiata di corsa al Passo della Fricca un’altra coppia di orsi. Jurka era stata prelevata dalla Slovenia nel 2000, per ripopolare il Parco dell’ Adamello Brenta, in seno al progetto Life Ursus, finanziato dall’ UE alla Provincia di Trento con qualche milione di euro. Poi, però, la dichiararono “orsa problematica”. In un territorio antropizzato, impreparato ad accogliere i plantigradi, l’accusarono di avvicinarsi troppo alle abitazioni. Due dei suoi figli, JJ1 e JJ3, furono uccisi con clamore: il primo in Baviera nel 2006, mentre la Germania ospitava i Mondiali di Calcio; il secondo in Svizzera nel 2008, sempre a fucilate. Quando fu catturata per essere rinchiusa a San Romedio aveva tre cuccioli di un anno, lasciati a se stessi. Nel 2008 il fronte animalista ottenne che fosse spostata in un ettaro al Castellar, vicino Trento: lì oggi c’ è DJ3, altra orsa considerata ribelle. Quindi, nell’ agosto 2010, la migrazione all’ Alternativer Wolf – und Bärenpark Schwarzwald, piccola oasi nella Foresta Nera: 7 ettari che divide con altri orsi e alcuni lupi. Dice Dell’ Eva: «Basta detenzioni inadeguate, che la Provincia di Trento crei luoghi sostenibili per quegli orsi che, purtroppo, non possano tornare alla libertà».

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/08/26/trento-nel-santuario-torna-orso-rivolta-contro.html?ref=search

Massimo Comparotto (Oipa Italia Onlus), “Basta orsi nella buca di San Romedio”

Apprendiamo dalla stampa che entro il mese di agosto dovrebbe tornare l’orso a San Romedio.

Nonostante le serie motivazioni culturali, scientifiche, etiche, portate dal nostro movimento e da tutto il mondo animalista affinché non vengano più rinchiusi orsi in quel luogo sembra che la tradizione e gli interessi economici abbiano avuto ancora una volta la meglio.

Uno degli esperti più rinomati, Rüdiger Schmiedel, consultato a livello europeo per progettare ambienti dove accogliere orsi nati in cattività, dopo aver visitato San Romedio nel periodo in cui vi era rinchiusa Jurka, nella sua relazione ha affermato che il luogo non è assolutamente adatto ad ospitare un orso, nemmeno se nato in cattività; che non debbono essere lasciati animali da soli e che per offrire un minimo di spazio vitale ad una animale di tale specie, è necessario ampliare il recinto fino ad almeno un ettaro.

Questo per dare all’orso l’indispensabile possibilità di muoversi, di evitare seri problemi alle articolazioni a causa dell’elevata umidità e dell’insufficiente esposizione al sole del piccolo recinto e non per ultimo di nascondersi quando non desidera contatti con l’uomo.

Ci chiediamo poi come dei frati che si rifanno all’insegnamento di Francesco d’Assisi, noto per il suo amore incondizionato verso gli animali e ogni essere vivente, possano essere favorevoli al ritorno dell’orso sfruttandolo come attrazione turistica.

Inoltre ai bambini che visiteranno l’orso in gabbia, verrà trasmesso un messaggio totalmente diseducativo.

Un’educazione che mira a formare un futuro cittadino consapevole, dovrebbe trasmettere il rispetto per ogni essere vivente e non abituare i bambini a trattare gli animali come fossero oggetti ad uso e consumo dell’uomo.

http://www.no-alla-caccia.org/lacatturadijurkaelacampagnajurkalibera/534988a0ad0a02a01.html

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Gli antropologi dell’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, specialmente quelli austriaci (Fuchs, 2003), adottarono una percezione statica dei Naturvölker, popoli “altri”, esclusi dai processi storici, i cui progressi tecnici e socio-culturali potevano solo avvenire per contatto e diffusione a partire dai Kulturkreise, circoli o sfere culturali coinvolte nei grandi processi storico-evolutivi. Alcuni di questi “fossili viventi”, rappresentanti di una natura umana preservatasi pura nel corso dei millenni, venivano esibiti nelle città tedesche tramite i Völkerschauen, esibizioni di umani esotici nel loro “habitat”, spesso ricostruito in modo tale da venire incontro alle aspettative di autenticità degli spettatori (Zimmerman, 2001). Per forza di cose, trattandosi di esseri umani con esigenze, desideri e finalità specifiche, gli “esemplari umani allo stato naturale” talvolta si rifiutavano di recitare la parte loro assegnata dalle società antropologiche che organizzavano gli spettacoli pubblici. Tantomeno erano disposti a lasciare che i loro crani e tratti anatomici fossero misurati dagli antropologi. I margini di negoziazione erano però ridotti, dato che l’obiettivo principale dei ricercatori era quello di raccogliere informazioni sulle tipologie umane primitive al fine di meglio comprendere gli stadi evolutivi della civiltà occidentale, ossia dei Kulturvölker, non certo quello di contrastare la brutalità dell’imperialismo europeo.

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Non sono solo i Trentini ad avere un rapporto appassionato ed ambivalente con gli orsi. Il simbolismo dell’orso è uno dei più prominenti ed ambivalenti dell’immaginario umano ed è arrivato fino a noi, con gli orsacchiotti per i bambini, gli orsi polari di “Lost”, le costellazioni – associate alle orse in numerose tradizioni – e l’orso rampante dello stemma personale di Benedetto XVI. In Grecia l’orsa era venerata come essenza della prosperità e della maternità premurosa e sollecita. Era l’animale sacro ad Artemide. La medesima radice “arth” dell’orso si rinviene nella dea gallica Artio, anch’essa accompagnata da un’orsa, e in Artoris, ossia Re Artù(ro).

Mentre l’orsa femmina, lunare, è benevola, l’orso maschio, solare, è l’emblema della casta guerriera. Orione, il cacciatore d’orsi, fu ucciso da Artemide mentre cercava di stuprarla. I famigerati berserk erano guerrieri fanatici che indossavano pelli d’orso per assimilarne la ferocia e la resistenza al dolore. Nell’alchimia, come per Jung, l’orso era simbolo di oscurità e del mistero della materia prima e del subconscio. Nell’iconografia cristiana può rappresentare il demonio e non è quindi per caso che ci siano numerosi santi cristiani domatori di orsi: San Gallo, San Romedio, San Corbiniano evangelizzatore del Meranese, San Lugano dell’omonimo passo, Sant’Orsola, San Colombano e Santa Colomba. Laddove non ci sono i santi, ci sono invece gli sciamani.

http://ricerca.gelocal.it/trentinocorrierealpi/archivio/trentinocorrierealpi/2010/07/04/AT6PO_AT601.html

 

Giovanni Kezich

Una cultura europea d’orso in I fogli dell’orso, Parco Naturale Adamello Brenta, ottobre 2009

www.pnab.it

Nell’Europa di un tempo, quella delle grandi selve e dei grandi spazi incolti, due sono le fiere a contenderne all’uomo il pieno dominio: il lupo, e l’orso. Ma se il lupo rappresenta di solito una malvagità cupa e un po’ stolida, comunque inavvicinabile, l’orso della tradizione popolare europea è quasi un uomo mancato, un uomo a metà, una parodia d’uomo. Ben lo sapevano gli antichi slavi, che sulla base di un’attribuzione antropomorfizzante e un po’ fiabesca hanno chiamato l’orso medved, il “mangia-miele”. Onnivoro, all’occasione bipede, giocherellone, goloso e improvvisamente iracondo come un òm selvadegh o un ragazzone un po’ scemo, l’orso appare come una controfigura selvatica dell’uomo, essendo la diretta dimostrazione in sede zoologica, nel sapere popolare di tutto il mondo, della continuità di fondo che, al di là delle molte differenze, esiste nei due sensi tra l’essere animale e l’essere uomo.

Ben lo sanno i pellegrini di San Romedio, che leggono all’ingresso del santuario questa massima moraleggiante, che dice infatti la stessa cosa: “Fatto stupendo, o cosa strana! L’orso, la belva si fa umana. / Stupor maggiore che l’uomo nato, in belva cerchi esser cangiato”.

Non vi è quindi da stupirsi se in quel mondo alla rovescia, in quella messinscena di valori all’incontrario, che è in tutta Europa il Carnevale, l’orso sia una comparsa d’eccezione, un personaggio, importante, talora un protagonista. Così è, ad esempio, in tutti i Balcani, dove l’orso tirato da una catena dal suo domatore, che nell’altra mano impugna l’immancabile gadulka e l’archetto, la piccola lira a tre corde per farlo ballare.

Così, per l’esibizione nel contesto carnevalesco, e in quello affine delle fiere, dei mercati e delle feste popolari, gli orsi venivano catturati anche vivi, meglio se da piccoli, strappandoli alla madre che veniva non di rado uccisa. In una valle dei Pirenei sul versante francese, non lontano da Lourdes, la valle del Garbet, gli abitanti, avuta l’idea da certi domatori d’orso boemi o zingari che si erano spinti fin là, si specializzarono in questo genere di catture, e cominciarono a girare l’Europa e anche l’America in proprio, andando ad esibire gli orsi, dapprima catturati in montagna e poi, dopo la quasi estinzione di questi sulle montagne di casa, reperiti alla meglio sul mercato algerino. Così, come il Tesino è la valle dei venditori di stampe e la Rendena la valle dei moléta, la valle del Garbet divenne nella leggenda popolare “la vallée des montreurs d’ours”, e le gesta anche d’oltreoceano di questi domatori improvvisati sono ormai oggetto di studi, ricerche, e di recente anche di un film, presentato con successo qualche anno fa al TrentoFilmFestival.
Duro, e molto crudele, il tirocinio musicale dei giovani orsi che – a quanto si racconta – venivano fatti ballare su una piastra rovente al suono di un tamburo, onde stimolarne per sempre un riflesso condizionato, che li avrebbe spinti alla danza ogniqualvolta ne avessero udito il rullare. Ma a poco a poco, vista la rapida riduzione delle popolazioni ursine un po’ ovunque in Europa, di orsi veri tra i baracconi delle fiere se ne videro sempre di meno e l’orso divenne quello che è oggi a carnevale, e cioè un personaggio in costume, una comparsa.

Così lo troviamo dalla Croazia alla Bulgaria, in tutti i Balcani, accompagnato dal suo fedele domatore imberrettato, vero antagonista clownesco con il quale ingaggia dei furiosi corpo a corpo seguito da altrettanto improvvise rappacificazioni: una coppia fissa del codazzo finale della processione carnevalesca, quello più buffonesco e sguaiato, insieme ad altri animali quali il cammello o l’immancabile cheval-jupon, ma anche a un’assortita compagnia di zingari veri e finti, di morti-viventi, di personaggi truculenti e di ogni genere di transgender.

Ma troviamo l’orso anche nell’Europa occidentale, e quantomeno dalla Navarra al Piemonte occitano. A Ituren in Navarra, in contesto culturale a fondo basco, è proprio un orso a condurre la processione degli Yoaldunak, l’antico gregge sacrale degli uomini-pecora che apre scampanando la processione del carnevale. Paradossalmente, come notava Cesare Poppi, l’orso (in basco artz) diviene così un pastore (arztain) come se a carnevale lo sterminatore dei greggi ne diventasse paradossalmente il custode: ancora, per il nostro orso, un’inversione di ruolo.

Dalla Navarra spagnola portiamoci nella Catalogna francese, sul versante settentrionale dei Pirenei. Qui l’orso è il vero protagonista del Carnevale che consiste, appunto, in una caccia all’orso. Nel villaggio di Arles-sur-Tech, per esempio, nel pomeriggio del sabato grasso, si sparge la notizia che l’orso ha rapito la bella Rosetta. Tutto il paese si lancia all’inseguimento del plantigrado, ma non riesce a evitare che la procace contadina (che è, manco a dirlo, un giovanotto travestito) venga stuprata in pubblico. Segue la rivincita dei paesani: un bravo cacciatore si fa avanti per catturare l’orso e riconquistare la Rosetta. Così, dopo qualche schermaglia dall’esito piuttosto scontato, l’orso verrà affrontato, bastonato, legato, ridotto alla ragione e alla fine fatto accomodare su una sedia, dove subirà, a cura del cacciatore divenuto barbiere, una rasatura con tanto di sapone e pennello: sorta di castrazione simbolica che ne sancisce l’avvenuta domesticazione.

Facciamo ancora un passo verso est, nel Piemonte occitano, e di cacce all’orso ne troviamo ancora molte, come ha dimostrato con grande dovizia di particolari l’antropologo Piercarlo Grimaldi. Qui però notiamo un fatto singolare: e cioè che il personaggio detto “orso”, e oggetto di una caccia in tutto e per tutto analoga a quella cui abbiamo assistito sui Pirenei, in realtà non assomiglia affatto a un orso vero, ma è una creatura di tutt’altro genere. A Valdieri nella montagna cuneese, per esempio, il cosiddetto “orso” è un portentoso uomo di paglia, ricoperto dalla testa ai piedi, fatto salvo il viso tutto nero di nerofumo, di una lunghissima treccia di paglia di segale, che lo avvolge tutto, conferendogli l’aspetto proprio di un vero covone semovente, o di uno spaventapasseri ambulante. Qualcuno ha suggerito che questo travestimento del tutto incongruo alla rappresentazione di un orso sia dovuto alla difficoltà intrinseca del reperirsi locale dei materiali (pelli, pelo, grugno…) atti una rappresentazione plausibile del plantigrado. A mio avviso, però, la spiegazione è tutt’altra, e ci impone una breve digressione.

Scrive infatti James Frazer, nella grande impareggiabile sua opera Il Ramo d’Oro, che fin dai tempi più remoti era uso degli antichi mietitori l’astenersi dal taglio dell’ultimo covone, che rimaneva così ritto in mezzo al campo a titolo di simulacro fino al completamento della raccolta, per essere oggetto in un tempo differito di un taglio ritualizzato o addirittura solenne. Si supponeva infatti che in quest’ultimo covone risiedesse lo spirito del grano, cioè lo spirito del raccolto, a cui si dava spesso nell’immaginario una forma animale: lupo, volpe, cinghiale, cervo, cigno, cicogna e naturalmente anche orso. Perché tutto questo? In origine, io credo, per conferire alla mietitura l’importanza sacrificale di una vera caccia, e al suo prodotto, il grano, uno status alimentare e simbolico non inferiore a quello della carne: una trovata non banale, io credo, per dei cacciatori neolitici risoltisi, e certo non sempre di buon grado, a transitare piuttosto repentinamente dalle grandi cacce a una dieta di carboidrati, certo meno adatta, almeno all’apparenza, a soddisfare appetiti preistorici. Con una importante differenza a favore del cibo di grano, però: mentre l’orso della caccia, una volta ucciso, è morto per sempre – salvo il ricomparire in quanto spirito nei mondi immateriali dello sciamanesimo – l’orso di paglia muore e risorge dal proprio seme, secondo quella elementare mistica di morte e resurrezione che vediamo infatti prender forma fin dalle origini nel mondo agrario del vicino oriente, intorno alla figura mistica di un dio – Attis, Osiride, Tammuz, Adone, fino ad Orfeo, per non fare altri nomi a noi più familiari – di cui il mito racconta l’esser stato capace, come il grano, di risorgere dopo la morte.

In questa prospettiva, l’orso di paglia, l’orso di Valdieri non è una sottospecie, non è una finzione, ma ci riporta al cuore stesso del percorso magico-religioso dell’umanità a partire dal neolitico e l’orso stesso, eterna figura di transizione tra il mondo animale e quello umano, diventa così in questa prospettiva un vero e proprio oggetto sacrificale, un quasi-dio.

Non a caso, il rito di Valdieri si conclude, come spesso avviene in questi casi, con il rogo pubblico di un pupazzo di paglia che è il perfetto simulacro dell’orso appena catturato e processato sulla pubblica piazza: arcaica anticipazione pagana, per il tramite del nostro antico mangia-miele, della scena del Golgota.
Tanto lontano ci conduce, se così vi piace, la storia dell’orso.

http://www.carnivalkingofeurope.it/resources/papers.php

Il mondo non starebbe meglio senza gli umani

In risposta ai rischi sistemici mondiali, si vedrà in particolare crescere un’ideologia ecologica planetaria che raccomanda la riduzione della produzione per diminuire il consumo di energia ed attenuare i rischi d’inquinamento, imponendo restrizioni in tutti i settori in nome della frugalità e dei vantaggi a lungo termine. Dall’altra parte, un’ideologia religiosa – o più d’una – tenterà anch’essa di imporre regole conformi alle esigenze di un aldilà dove risiederà, secondo quanto sostiene, l’unica speranza di salvezza. Queste due ideologia fondamentaliste, ecologica e religiosa, convergeranno: l’una e l’altra affermeranno che il destino degli uomini è già scritto e che il vero padrone del mondo – la Natura o Dio – è altrove. L’una e l’altra, alla ricerca della purezza, denunceranno l’Occidente. L’una e l’altra sosterranno di pensare alla felicità degli uomini in termini di prospettiva. Potrebbe anche emergere un giorno un’ideologia che metta insieme le due dottrine: un fondamentalismo allo stesso tempo religioso ed ecologico. Un ossimoro, come lo fu il nazionalsocialismo. Già ha fatto la sua comparsa in Brasile, dove si sta sviluppando un fondamentalismo evangelico eminentemente interessato alla tutela dell’ambiente. Inoltre, nel 2002, Osama Bin Laden, nella sua “Lettera all’America”, accusò gli Stati Uniti di distruggere la natura più di qualsiasi altra nazione, con l’emissione di gas a effetto serra e la produzione di rifiuti industriali. Nel gennaio del 2010, sosteneva che “tutte le nazioni occidentali” sono colpevoli del cambiamento climatico. Nell’ottobre dello stesso anno, ribadiva che le vittime del cambiamento climatico sono più numerose di quelle delle guerre.
Jacques Attali, “Domani chi governerà il mondo?”, 2012, p. 289

L’ecologista misantropico vede le evidenti e terribili offese perpetrate dagli umani all’ecosistema e conclude che il pianeta starebbe messo meglio se non ci fossero gli umani.

Io la vedo diversamente.

In parte per la simpatia con cui guardo a questa corrosiva demolizione dell’ecologismo new-age:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/04/01/salvate-le-lumache-george-carlin-mi-mette-in-riga/

In parte per la mia adesione ad una prospettiva radicalmente diversa ed incompatibile con quella del panteismo naturalista.

Per me la realtà materiale non è la realtà ultima: né per gli umani, né per gli altri animali. La realtà materiale è solo l’espressione visibile di un piano di realtà in cui un colibrì e Mozart assumono un significato molto più grande di quel che ci appare qui e ora (o di quel che pensa un colibrì).

Questa prospettiva si chiama panENteista ed è in armonia con i fondamenti della fisica quantistica (cf. Alfred North Whitehead).

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/18/viviamo-nellillusione-e-chi-lo-sa-ci-manipola-agevolmente/

Per il panenteista è tutta una questione di coscienza:

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/e-tutta-una-questione-di-coscienza.html

http://fanuessays.blogspot.it/2011/11/il-sentimento-oceanico-etica-per-un.html

incluso l’ambientalismo:

http://fanuessays.blogspot.it/2011/12/ambientalismo-per-un-mondo-nuovo.html

Per un panenteista il mondo senza l’umanità sarebbe incredibilmente triste, incapace di contemplarsi, creativamente impoverito. Un panenteista si augura che l’umanità capisca come disciplinare il proprio peggio ed esaltare il proprio meglio, ossia che apprenda come gestire il potere ed i rapporti di potere.

Per un panenteista un mondo senza Mozart, Heisenberg, Aung San Suu Kyi, Michelangelo, i Beatles, Truffaut, Kandinsky, Dostoevskij, Omero, Calvino, Socrate, Gesù, il Buddha, Goethe, senza le danze, canti e musiche tradizionali, senza i piatti tradizionali, i giardini zen, gli orti, l’artigianato, le chiesette di montagna, senza la moda al suo meglio, senza la fede, senza l’altruismo disinteressato, senza la capacità di tradurre i sogni in realtà, ecc. sarebbe triste e povero in senso assoluto, non solo per gli umani. Questo perché il panenteista considera l’umano come una data espressione di un “tutto” che è nella natura ma anche la trascende, simultaneamente; e da ciò consegue che la musica di Mozart, il messaggio di Gesù, il principio di dignità e la democrazia, tra le altre cose, hanno un significato universale che va ben oltre i confini di questo pianeta o di questo universo.

Quale animale potrebbe esperire e comunicare l’estasi poetica e spirituale di un Whitman nell’entrare in contatto con la natura? Tutti gli animali sono speciali, ma gli umani sono più speciali nella loro specialità:

https://versounmondonuovo.wordpress.com/2012/02/20/non-siamo-scimmie-nude-diritti-umani-diritti-degli-animali-specismo/

E questa peculiare specialità è probabilmente risibile se messa a confronto con altri esseri viventi che popolano il cosmo in tutti i suoi piani di realtà. La differenza sta nel grado di profondità con cui si percepisce e si comprende la realtà: la consapevolezza di una formica è meno profonda di quella di un gatto. Un gatto ha una comprensione di universali come la matematica e la musica più estesa e complessa di quella di una formica. Come noi rispetto agli scimpanzé. Come qualcun altro rispetto a noi.

Per tutte queste ragioni il panenteismo non è antropocentrico. È, semmai, teocentrico, di un teocentrismo che non ha nulla a che vedere con il vecchio barbuto e capriccioso dei monoteisti, essendo piuttosto in sintonia con la concezione tradizionale del “Grande Spirito” o di “Sofia”/“Anima Mundi”. Antropocentrico è, al contrario, il panteismo naturalista. Infatti pensare che la natura starebbe meglio senza di noi è antropocentrico, ed è il sintomo di un notevole narcisismo. Dobbiamo essere sempre noi, nel bene e nel male, al centro. Dobbiamo essere sempre noi i principali responsabili di ogni catastrofe naturale, dell’estinzione delle api, del riscaldamento globale e un giorno immagino persino degli impatti cosmici. Sempre noi al centro di tutto.

Pinguini assassini, stupratori e necrofili (questo pianeta è malsano: rassegnatevi animalisti)

 

Un giorno gli esseri umani impareranno ad osservare la realtà senza pregiudizi, senza reinterpretarla arbitrariamente per farcela stare nelle loro categorie mentali antropomorfiche ed antropocentriche.
Il mondo naturale è spietato ed è amorale. Scoiattoli, anatre, iene, pinguini, gatti e topi e persino i tanto idolatrati bonobo non sono morali: non c’è bontà nel mondo animale. Questo è un pianeta che dal punto di vista umano è terribilmente crudele, in cui si vive sempre e comunque a spese degli altri e in cui la violenza è indiscriminata. Quel che ci contraddistingue è la coscienza, la facoltà di stabilire che certe cose sono aberranti, di “sentire” che qualcosa non è giusto, dia vere scrupoli, esitazioni, ripensamenti e rimorsi. Per gli animali lo stupro di gruppo con annegamento finale (anatre), l’assassinio del proprio gemello al momento della nascita (iene), lo sterminio dei piccoli delle madri altrui (scoiattoli), la necrofilia ed il bullismo di branco (pinguini), non sono aberrazioni: sono comportamenti naturali.

“Innamorati, disposti al sacrificio e fedeli. Nell’immaginario collettivo – anche grazie a film che ne hanno descritto le lunghe marce tra la neve per tornare a casa – i pinguini sono l’emblema della monogamia. Ma una scioccante verità, rimasta segreta per un secolo, emerge ora da uno studio scientifico. «I pinguini di Adelie fanno sesso fra maschi, a volte violentano le femmine, uccidono i pulcini, talvolta i maschi si accoppiano perfino con femmine morte, anche da tempo…». Così scriveva circa un secolo fa il naturalista inglese, George Murray Levick, in un rapporto rimasto chiuso in un cassetto per non scandalizzare la Gran Bretagna dei primi del 900.

ANNOTAZIONI IN GRECO – L’esploratore Levick era uno scienziato al seguito della spedizione (finita poi male) di Robert Scott al Polo Sud, che trascorse in Antartide lunghi periodi fra il 1911 e il 1913. Levick passò l’estate del 1911-12 a osservare le colonie di pinguini di Adelie nella zona di Cape Adare. E gli appunti sul comportamento sessuale dei non accoppiati – scritte in greco antico affinché solo pochi potessero leggerle e secretate perché il mondo non inorridisse – sono emerse dall’oblio 100 anni dopo, in un mondo pronto ad accogliere quelle «terribili verità» che un uomo di epoca eduardiana non poteva divulgare.

CARTE SEGRETE – Le «carte segrete» sulle «depravazioni» sessuali furono stralciate dal trattato che Levick scrisse, una volta tornato a Londra, sulla base delle sue osservazioni, intitolato «Natural History of the Adelie Penguin» (Storia naturale del pinguino di Adelie). Delle carte segrete, intitolate «Sexual Life of the Adelie Penguin» (La vita sessuale dei pinguini di Adelie) e circolate solo in un ambiente ristretto, si è salvata almeno una copia, ritrovata dal curatore della sezione sugli uccelli del Museo di Storia Naturale di Londra, Douglas Russell, fra le carte originali della Spedizione Scott.

OSSERVAZIONI CREDIBILI – Russell le ha fatte pubblicare sulla rivista specializzata Polar Record, in un’edizione critica dei lavori di Levick. «Il pamphlet – spiega Russell alla Bbc – osserva e commenta la frequenza dell’attività sessuale, il comportamento auto-erotico e il comportamento apparentemente aberrante di giovani pinguini non accoppiati, maschi e femmine, che comprende la necrofilia, la coercizione sessuale, l’abuso sessuale sui pulcini e attitudine omosessuale». Le sue osservazioni, dice l’esperto, sono «accurate e credibili».

BABY GANG DI STUPRATORI – Fra i momenti più drammatici del comportamento dei pennuti antartici descritti da Levick, c’è quello in cui «i piccoli balordi in bande di sei-sette individui si aggirano attorno alle collinette, molestando i loro simili che vi abitano con azioni violente». E così descrive femmine ferite stuprate da membri di queste «gang», che spesso abusano dei piccoli davanti ai genitori, poi calpestandoli, alcuni a morte.

NECROFILIA – Ma la cosa che provoca il maggiore disgusto nello scienziato inglese è osservare una femmina morta, distesa con gli occhi socchiusi, che appare simile a una femmina sessualmente compiacente, con la quale si accoppia un maschio (forse inconsapevole) necrofilo.

Carlotta De Leo

http://www.corriere.it/animali/12_giugno_10/pinguini-perversioni-sessuali-depravazioni-necrofili-stupratori_e7fca83e-b30c-11e1-8b75-00f6d7ee22cc.shtml

Salvate le lumache! George Carlin mi mette in riga

Milioni di persone, migliaia di monumenti simbolo, uffici e abitazioni private rimangono al buio per 60 minuti per sensibilizzare contro il riscaldamento globale e a favore di uno stile di vita sostenibile.

La Repubblica, l’Ora della Terra, 31 marzo 2012

Non punisce, non premia, non giudica affatto.
George Carlin

Sono un ambientalista e devo ammettere che George Carlin mi ha beccato in castagna e gliene sono gratoServe più gente che ci dica quel che non vogliamo sentire, sentirci dire, confessare a noi stessi, che smascheri le nostre ipocrisie, che ci sbatta in faccia le nostre paurose contraddizioni. Carlin era una di quelle persone.

“Non abbiamo già fatto abbastanza? Siamo così presuntuosi, così presuntuosi. Ognuno si ripromette di salvare qualcosa, adesso. Salviamo gli alberi, salviamo le api, salviamo le balene, salviamo le lumache. E, colmo dell’arroganza: salviamo il pianeta. Cosa? Stiamo scherzando? Salviamo il pianeta? Noi non sappiamo ancora nemmeno come prenderci cura di noi stessi, non abbiamo imparato a prenderci cura gli uni degli altri, ma adesso ci mettiamo a salvare il pianeta. Mi sto stancando di questa merda. Sono stanco della Giornata della Terra. Sono stanco di questi ambientalisti ipocriti. Questi bianchi, borghesi, progressisti che pensano che l’unica cosa sbagliata di questo paese è che non ci sono abbastanza piste ciclabili. Persone che cercano di rendere il mondo sicuro per le loro Volvo. E comunque agli ambientalisti non gliene frega nulla del pianeta, non si preoccupano del pianeta al di là delle loro astrazioni. Sapete che cosa gli interessa? Un luogo pulito in cui vivere. Il loro habitat. Sono preoccupati che un giorno potrebbero perfino essere incomodati in prima persona.

Inoltre, non c’è niente di sbagliato in questo pianeta. Il pianeta sta bene. Siamo noi ad essere fottuti. Il pianeta sta bene, sta andando alla grande, in confronto alle persone. È stato qui da quattro miliardi e mezzo di anni. Avete fatto i calcoli? Il pianeta è stato qui quattro miliardi e mezzo di anni, mentre noi ci siamo stati per centomila, forse duecentomila anni. E ci siamo dati all’industria pesante per circa duecento anni. Duecento anni rispetto a quattro miliardi e mezzo, ed abbiamo la presunzione di pensare, in qualche modo, di essere una minaccia, che in qualche modo stiamo mettendo a repentaglio questa bella pallina verde-blu che fluttua intorno al sole. Il pianeta ne ha passate di molto peggio, rispetto a noi. Terremoti, vulcani, tettonica a zolle, deriva dei continenti, brillamenti solari, macchie solari, tempeste magnetiche, l’inversione magnetica dei poli, centinaia di migliaia di anni di bombardamenti da parte di asteroidi e comete e meteore, le inondazioni e gli incendi in tutto il mondo, maremoti, erosione, raggi cosmici, glaciazioni ricorrenti, e pensiamo che alcuni sacchetti di plastica e alcune lattine di alluminio possano fare la differenza. Il pianeta non sta andando da nessuna parte. Siamo noi che ce ne stiamo andando via. Fate i bagagli. Ce ne stiamo andando e non resterà traccia di noi, grazie a Dio. Forse un po’ di polistirolo. Forse. Il pianeta sarà ancora qui e noi saremo ormai lontani. Solo un’altra mutazione che non è andata a buon fine, un errore biologico. Un vicolo cieco evolutivo. Il pianeta si scrollerà di dosso tutti noi, come delle pulci pestifere. Un fastidio superficiale.

Volete sapere come se la cava il pianeta? Chiedete a quelle persone a Pompei trasformati in statue dalle ceneri vulcaniche. Se volete sapere se il pianeta se la passa bene, basta chiedere a quelle persone a Città del Messico, o in Armenia o in cento altri luoghi sepolti sotto migliaia di tonnellate di macerie dai terremoti. Domandate a loro se questa settimana si sentono una minaccia per il pianeta”.

Qui c’è l’intero segmento e merita:

AGGIORNAMENTO:

“Questo non è il primo investimento di un orso in Trentino Alto Adige. Nel 2008 un cucciolo di orso bruno era stato trovato morto ai bordi della strada provinciale tra Preore e Villa Rendena, probabilmente travolto di notte da un veicolo in transito. Nella stessa zona nel 2005 era stato investito un altro orso, che però non aveva subito traumi importanti. Nel 2001 l’orsetta “Vida” era stata invece urtata da una macchina sull’autostrada del Brennero fra Trento e Bolzano e nel 2009 una guardacaccia aveva investito un esemplare nella zona di Passo Palade. In entrambi i casi l’animale era però sopravvissuto”.
http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/451282/

è quel che succede quando l’uomo gioca a fare il dio e decide chi deve stare dove sul “nostro” pianeta.

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