Romano Màdera (Milano Bicocca) sul Mondo Nuovo

PREMESSA MIA

Il fatto è che il montismo non è nulla più che una forma collettiva della Sindrome di Stoccolma.

Gli ostaggi fraternizzano con il rapitore (che diventa il salvatore) per non dover affrontare psicologicamente l’orrore della propria situazione.

In questa versione, come suggerisce Debora Billi, molti lo vedono come l’aguzzino buono che li protegge da aguzzini peggiori.

S’incrociano dunque due dinamiche psicologiche che inducono alla sottomissione: la sindrome di Stoccolma e la tecnica del poliziotto buono e di quello cattivo, che però, come spiega la voce di wikipedia, pur essendo utile con soggetti “giovani, impauriti o sprovveduti”
comporta un certo grado di rischio, se infatti è riconosciuta dal soggetto esso può considerarsi offeso ed insultato e rendere meno probabile una sua collaborazione“.

È “facile” guarire: basta guardare in faccia la realtà e sfuggire a chi ci tiene in ostaggio, verso un Mondo Nuovo.

Romano Màdera (che confesso di non aver mai sentito nominare prima, purtroppo), mi pare una buona guida.

Questa è una sua intervista.

INTERVISTA SUA

…Nell’epoca del pensiero unico neoliberista intravede ancora degli spiragli per immaginare altrimenti il futuro dell’umanità?

Credo che sia un’esagerazione pensare che il pensiero neoliberista sia davvero unico. E’ il pensiero egemone, solo questo. E un’egemonia sgangherata, perché l’egemonia americana, oggi, è ormai da tempo in declino. Non sappiamo se ci sarà, o quale sarà, la forza egemonica nel futuro prossimo, o se, invece, entreremo in un’epoca di confusa competizione fra diverse aree geopolitiche che incorporano grandi gruppi capitalistici. Una delle possibili prospettive, relativamente nuova, è quella di una sovrapposizione di diverse sfere di giurisdizioni e d’influenza non più riconducibili a sfere istituzionali esclusive, come sono state quelle degli stati nazionali o dei blocchi internazionali.

Ma nella pancia del mondo ci sono anche milioni di piccoli esperimenti, come ben sapete, che moltiplicano le sfaccettature di un altro mondo possibile. Non cambieranno la sorte complessiva, a breve, ma sono laboratori di alternative di ogni genere, pronte a tornare utili nella lunga fase di transizione della crisi generale del nostro modello di vita. Una crisi che riguarda, come si sa, fonti di energia, materie prime e risorse alimentari, distribuzione mondiale del lavoro e della popolazione per classi di età, divaricazione fra istruzione e mercato del lavoro, servizi alla persona, assenza di istituzioni sovranazionali forti e credibili.

 

[…].

 

Nel suo Il nudo piacere di vivere (2006) lei sottolinea la necessità di recuperare il senso del limite e della misura per scardinare la logica dell’accumulazione infinita e i suoi effetti patologici sulla vita delle persone. Qual è la sua opinione sul tema della «Decrescita»? In che modo pensa che possa diffondersi una nuova cultura del limite capace di incidere sia sul versante degli stili di vita individuali che su quello della macroeconomia?

Milioni di microesperimenti in questa direzione, semplicemente perché in modo più o meno confuso l’assenza di limite è radicalmente insoddisfacente, radicalmente angosciante. E la sempre più acuta percezione che stiamo arrivando al capolinea dello sviluppo, uno sviluppo che, ormai è sempre più chiaro, non è conquista di maturazione umana. Il disgusto crescerà insieme alla crisi. Il disagio psichico delle popolazioni sopra il livello di sussistenza si specchierà nel rovescio della disperazione dei poveri del mondo, scatenando ancora più depressione e rabbia espulsiva, ma anche preoccupazione e stimolo a convertire le nostre abitudini di vita. Certo non basterà. Noi umani siamo testoni, ancora impariamo solo dalle catastrofi. Penso che ci saranno passaggi molto duri, tremendi, le convulsioni del vecchio mondo possono durare secoli, e non è detto che sorga poi il sole dell’avvenire. Ma avere in mente una meta di patto di equilibrio e di pace può orientare le azioni e iscrivere la propria vita nella sensatezza. Serve la crescita consapevole di una nuova avanguardia.

Non di un nuovo partito, ma di una avanguardia spirituale, capace di sperimentare su di sé una disciplina spirituale (con spirituale intendo l’unità dello psichico, del corporeo e della cultura sociale di un dato tempo), una cultura della cooperazione e della competizione non distruttiva e non espulsiva.

La cellula virale capace di iniettare la possibilità di un esito positivo alla grande crisi di civiltà che stiamo attraversando. Sperimentare su di sé e con gli altri forme di comunicazione e di cooperazione solidale, esercitarsi quotidianamente per rendersi capaci e degni di questo compito, utilizzando in modo eclettico, sincretico ed ecumenico – sulla base della propria esperienza biografica di vita – lo sconfinato patrimonio di saggezza che ci è stato consegnato da filosofie, religioni, spiritualità e arti di tutte le culture.

Confesso però che il termine di Decrescita – non l’idea che condivido nella sua ispirazione di fondo – mi suona, comunicativamente, troppo legata a una negazione, ancora troppo polemica. Preferisco parlare di patto dell’equilibrio e della pace. Equilibrio e pace nel rapporto con la casa comune che è costituita dagli altri, dal lavoro di tutti e dalla natura. Voglio dire, ovviamente, che il punto non è in sé crescere o decrescere, ma come, rispetto a che cosa. So che questo è ben presente nella teoria, ma lo slogan che la traduce non mi convince e rischia di dare un’immagine falsata di quello che si propone. Bisogna dire che vogliamo che crescano, crescano immensamente, attività sensate, consumi attenti, tempi di riflessione, di contemplazione, di gioco, di cura…

Infine, chi volesse superare la dicotomia fra destra e sinistra per produrre un’alternativa credibile all’attuale totalitarismo capitalistico, quali forze simboliche dovrebbe mettere in campo per riconquistare i cuori dei delusi dalla politica?

Le forze simboliche non si inventano, si raccolgono e si re-inventano sulla base di una memoria capace di creazione, come sempre è in realtà la memoria. Abbiamo possibilità meravigliose: possiamo mettere in sintonia e in sincronia (cf. sincronicità, Jung) la concordia di tutto ciò che di saggio, di buono e di bello hanno creato le culture della storia del mondo. Il criterio può appunto essere ciò che contribuisce a costruire un patto di equilibrio e di pace fra i popoli e nell’interiorità di ciascuno.

Ma non serve neppure basarsi soltanto su ciò che forma la grande concordia della saggezza universale, sui punti di coincidenza che pure sarebbero più che sufficienti e di stupefacente capacità trasformativa.

Con un metodo adeguato di comunicazione che rispetti la singolarità biografica e la faccia vivere nella fecondità dello scambio comunitario, possiamo, senza urtarci, far tesoro delle più fini diversità, senza pretendere di imporle. Uno dei milioni di microesperimenti è anche quello che conduciamo in piccoli gruppi di pratiche filosofiche da quindici anni, pratiche fra le quali, appunto, c’è anche la sperimentazione di regole di comunicazione biografico-solidali.

Questo per dire cosa tento di fare personalmente. Facciamo invece un esempio in grande: prendiamo uno dei temi più scottanti di scontro e di incomprensione di universi simbolici, usati spesso a rinforzo di politiche fondamentaliste, contrappositive, sostanzialmente succubi, peraltro, agli interessi della civiltà dell’accumulazione. Quali tesori simbolici sono da snidare nelle convergenze fra le religioni del Libro – Ebraismo, Cristianesimo e Islam – quali forze simboliche possono essere evocate a vantaggio della fratellanza e della cooperazione, della trasformazione interiore e della condivisione sociale e materiale, quali spinte generose verso la comunità universale dell’umano !

Certo, bisogna impegnarsi in un processo di purificazione, di vera e propria catarsi, liberando le religioni – queste e tutte le altre – dalle loro incrostazioni complici di mentalità oggi inaccettabili: bisogna liberarle dall’etnicismo, dal classismo, dal sessismo, dall’autoritarismo, farle passare da questo setaccio, trattenendo solo le perle che vincono il tempo.

Romano Màdera è filosofo, psicoanalista di formazione junghiana e professore ordinario presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dopo aver insegnato all’Università della Calabria e all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Tra i suoi libri più significativi: L’alchimia ribelle (Palomar, 1997), L’animale visionario (Il Saggiatore, 1999), La filosofia come stile di vita (con L.V. Tarca, Mondadori, 2003) e Il nudo piacere di vivere (Mondadori, 2006).

http://www.megachip.info/component/content/article/32-pensieri-lunghi/5782-lanimale-visionario-intervista-al-filosofo-romano-madera.html

3 commenti

  1. 8 ottobre 2012 a 14:33

    La premessa di un montismo come sindrome di Stoccolma è tanto geniale quanto deludente la proposta: l’attesa di una maturazione spirituale/culturale in un universo disincarnato e senza politica.

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    • 8 ottobre 2012 a 14:40

      la premessa è mia, la proposta è sua
      ahahahahahahah
      Màdera è junghiano e quindi si deve tener conto che ha fiducia nel potere trasformatore delle coscienze collettive di certi archetipi. Io sono d’accordo con lui: senza una trasformazione spirituale non ci sarà mai una rivoluzione politica che cambi le cose in meglio e stabilmente e questa trasformazioni richiedono tempo ed impegno. Siamo in un’epoca in cui vogliamo tutto e subito ed è una delle ragioni per cui stiamo finendo di male in peggio.
      Detto questo, occorre gettare le basi per entrambe e quindi contrastare chi intende cogliere l’occasione della crisi per imporci riforme che vanno contro i nostri interessi.
      Tutto aiuta.

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  2. 8 ottobre 2012 a 18:19

    allora sei un genio 🙂 quanto al problema della trasformazione spirituale o maturazione culturale del cambiamento, penso sia necessario uscire da riferimenti aporetici (niente cambia se mancano le condizioni per il cambiamento) e rivolgersi a pensatori che sulla dialettica di controllo e cambiamento hanno costruito opere intere (Marx, Bourdieu ..). Sull’urgenza poi, di contrastare queste politiche mi trovi più che d’accordo.

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