L’archetipo di Atlantide e la Sindrome di Faust

Tutte le immagini sono tratte dalle cerimonie di apertura e chiusura dei giochi olimpici di Londra

La Sindrome di Faust è un tipo di mentalità che abbiamo sviluppato con l’agricoltura e che si è irrobustito con la diffusione del radicale dualismo gnostico-cartesiano tra ego e natura. Utili riflessioni su questo tema possono essere trovati nel pensiero di Hans Jonas e Carl G. Jung, in particolare nella loro disamina del modo in cui ci siamo estraniati dal mondo e dalla trascendenza, diventando integralmente alienati, suscettibili di depressione cronica, fuga dalla realtà e megalomania (inflazione di ego), a seconda dei casi.

Filemone e Bauci sono agli antipodi di Faust.

La leggenda di Filemone e Bauci è di origine greca ma appare per la prima volta in forma completa nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C. – 17 d.C.), un autore pre-cristiano che però conferisce alla narrazione un carattere riconoscibilmente, profeticamente cristiano. Abbiamo la lavanda dei piedi, la mancata ospitalità punita con una distruzione da fine dei tempi, la moltiplicazione del vino e del cibo, l’identità divina e insieme umana degli ospiti. La ospitalità viene descritta come al tempo stesso un obbligo ed un’opportunità di maturazione e compimento, di completamento. Una vita inospitale è una vita insalubre. Il mondo non ci ha chiesto di nascere qui ed ora, però ci ospita. Filemone e Bauci si donano al prossimo, si pongono al servizio del prossimo, ossia dimostrano di essere capaci di amare il prossimo come amano se stessi. Chi si chiude narcisisticamente in se stesso si chiude alla vita e si condanna alla distruzione, come i vicini inospitali della coppia mitica. Gli unisono ospitali, pur essendo poveri, e i loro desideri vengono esauditi: diventano sacerdoti di Apollo e viene concesso loro il privilegio di un reciproco amore eterno. Gli altri, che hanno i mezzi per ospitare e non lo fanno, saranno spazzati via dalla faccia della terra.

Si comportano come i Proci dell’Odissea. Vogliono tutto per se, come il Faust di Goethe.

Nella seconda parte dell’opera, Faust è un imprenditore capitalista che porta avanti un titanico progetto ingegneristico ed urbanistico con l’assistenza di Mefistofele. Ma sulla sua strada incontra un ostacolo, una coppia di anziani di nome Filemone e Bauci che vivono poveramente in una piccola capanna. Sono molto ospitali e generosi, specialmente con i naufraghi (cf. richiamo al Diluvio ovidiano), ma sono anche tenacemente legati al loro angolo di mondo e non lo vogliono veder sparire sotto i colpi del “progresso”.

Faust non sa bene cosa fare, ma desidera con tutte le sue forze gratificare il suo ego e portare a termine il suo progetto. Mefistofele gli ricorda che il diritto sta sempre dalla parte dei forti: “E perché vuoi fare dei complimenti? Non devi forse colonizzare?”. Faust approva: “Allora andate e liberatemi di loro”. Acconsente così ad un doppio omicidio in stile mafioso (un incendio doloso). La volontà di dominio dei forti non tollera interferenze, vuole imporre il suo sigillo sulla storia e sul mondo, sacrificare il presente al Moloch di un futuro in cui i posteri non hanno alcuna voce in capitolo, dovendosi limitare ad accettare il fatto compiuto. Nel Faust non c’è un lieto fine come in Asterix, dove il piccolo villaggio gallico continua a resistere agli invasori romani. Faust costruisce il suo Mondo Nuovo sfruttando il servaggio, i sacrifici, la sofferenza altrui, la rapina, la pirateria, la corruzione, l’inganno, la violenza: come un conquistador, come un emissario coloniale sul libro paga della Compagnia delle Indie. Goethe ci insegna che il demonismo titanico è il demonismo di una certa imprenditoria capitalista priva di coscienza, di lungimiranza, di una pur minima attenzione al bene comune. Faust, prima di redimersi, assomiglia sempre di più alla sua mefistofelica guida ed assistente, che ama il vuoto, è il vuoto, in quanto odia la creazione, è necrofilo, detesta la vita e preferisce l’inerzia – la medesima descrizione che Dostoevskij dava dell’Anticristo. Faust è, junghianamente, l’ombra dell’uomo. I paralleli con il nostro tempo si sprecano. Per esempio, Mefistofele suggerisce al re di emettere obbligazioni e moneta assicurando, truffaldinamente, che il suo regno sta seduto su immense miniere d’oro (che in realtà non esistono). Una preveggenza stupefacente perché anticipa di due secoli certe pratiche finanziarie (derivati) che hanno distrutto l’economia reale nella prima Depressione ed in quella contemporanea.

L’archetipo atlantideo, che attraversa i secoli, è quello di una civiltà intossicata dalla propria bramosia di potere, che alla fine si autodistrugge. Il messaggio morale è che il progresso tecnologico dissociato da quello morale ed un progresso materiale inseguito ossessivamente per compensare la perdita dei poteri spirituali delle origini è satanico o comunque autolesionistico. Quanto più l’umanità si allontana dalla sua sorgente spirituale, tanto più si solidifica ed oggettifica, si fa meschina, stolida, nociva per tutto ciò che la circonda. Le più attente e rigorose disamine dell’immensa letteratura dedicata al simbolismo ed al mito atlantideo (Vidal-Naquet, 2006; Godwin, 2011; Ciardi, 2011) sembrano indicare che nel corso dei secoli decine di letterati, pensatori più o meno seri e più o meno pittoreschi, si sono trovati d’accordo almeno su un punto: la nemesi dell’ipotetica/simbolica civiltà di Atlantide giunse quando gli abitanti del misterioso impero abusarono delle loro conoscenze avanzate per dominare le forze naturali. Quel che più veneravano li distrusse. La loro tecnoscienza produsse la loro caduta, perché fu posta al servizio di finalità meschine, cieche, egoistiche, crudeli, vili, da superuomo nietzscheano:

“L’essenziale di una buona e sana aristocrazia è che essa…accolga con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che per amor suo devono essere spinti in basso e diminuiti fino a diventare uomini incompleti, schiavi, strumenti” (F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”).

Una mentalità che ritroviamo, pari pari, in un’intervista alla escort Terry de Nicolò del 16 settembre 2011:

“Qui vale la legge del più forte e se sei onesto non riesci a fare un grande business. Se vuoi i grandi numeri devi rischiare il culo. Più in alto devi andare e più devi passare sui cadaveri ed è giusto che sia così. Però qui non viene capito, perché c’è un’idea cattolica, c’è un’idea morale. Quello che mi fa incazzare è l’idea moralista della sinistra che tutti devono guadagnare duemila euro al mese, che tutti devono avere diritti. No, no. Qui è la legge di chi è più forte, di chi è il leone. Se tu sei pecora rimani a casa con duemila euro al mese. Se invece vuoi ventimila euro al mese devi entrare in campo e ti devi vendere la madre, mi dispiace ma è così”.

L’archetipo atlantideo in politica modella società in cui gli individui non possono crescere intellettualmente e psicologicamente e sono istruiti a credere che la realtà può essere rimodellata e negoziata a piacimento, che non esistono principi morali che non dipendano dalle circostanze e che quindi l’utile giustifica ogni cosa mentre solo chi è eccellente, superiore, sa istintivamente cosa è meglio e cosa è peggio per tutti.

“Atlantide” è una società in cui si accetta la volontà altrui e ci si adatta finché la controparte è più forte. È la forza a stabilire cosa sia giusto e sbagliato, cosa sia lecito e cosa precluso. L’istruzione è nozionistica e serve unicamente a fabbricare uomini-robotici ben disciplinati. Il rituale prevale sulla discussione ragionata. Il potere che discende dall’alto, non risiede nella sovranità popolare ed il governo è, sostanzialmente, una banda di criminali che si accorda sulle regole di condotta e criteri di spartizione del bottino, con l’obiettivo comune di espandere l’accessibilità a potere e risorse. Per il resto tra loro regna una rivalità spietata.  Un potere che non è apertamente violento, ma più simile a quello immaginato da Tocqueville e da Dostoevskij. Il marcio (torture, sparizioni, ricatti, corruzione, minacce, eugenetica, darwinismo-sociale, ecc.) resta dietro le quinte o viene mimetizzato dietro slogan, proclami ed eufemismi, mentre i cittadini sono indottrinati a credere di essere perennemente indebitati nei confronti delle autorità, ad essere mansueti, obbedienti in cambio dell’illusione della benevolenza. Ignorano la nozione che possa esistere una legittima resistenza al potere dato che presumono che il potere sia per sua natura nel giusto. Nel dominio del sacro, la critica è sacrilegio. Nessuno insegna alla gente a dire no ed a pensare che la società non è un capriccio della natura ma il prodotto dell’inventiva umana e quindi può essere modificata, riformata anche in maniera sostanziale.

Così il diritto non esiste per proteggere i cittadini ma per conservare i privilegi di chi comanda. I pochi diritti che non rimangono sulla carta sono concessi (non essendo concepiti come naturali ed inalienabili) dall’alto per servire meglio i fini del sistema, non certo per intralciarlo nelle sue funzioni. Quest’ideologia riduce la conoscenza e la consapevolezza, occulta le relazioni di potere, le reali motivazioni delle autorità e persino l’intrinseca ingiustizia ed innaturalità di una data situazione. Perciò chi funge da propagandista dell’establishment neppure si rende conto di farlo e trasmette una visione distorta della realtà in completa buona fede.

Atlantide è l’estremo distopico dal quale dobbiamo tenerci sempre alla larga. Quanto più ci avvicineremo a quel modello, tanto peggio vivranno le future generazioni.